di Marinella Bandini
“Murati vivi”. Una scritta sul muro e una data: 3 novembre 1943. Inizia quel giorno l’avventura di alcuni uomini – ebrei, disertori, renitenti alla leva – per fuggire dai tedeschi che occupavano Roma. Una storia rimasta nascosta per 40 anni, e riportata alla luce, è il caso di dirlo, da padre Ezio Marcelli, sacerdote della comunità redentorista presente fin da allora nella chiesa di San Gioacchino in Prati, dove si svolge questa vicenda. Dopo l’armistizio dell’8 settembre, la situazione è incandescente; chiese e conventi non sono risparmiati dalle incursioni dei tedeschi. Anche per i padri redentoristi è troppo rischioso continuare a proteggere ebrei e fuggiaschi nei locali annessi alla chiesa: il teatro e anche le stanze del convento. Nei libri delle cronache della comunità, si legge – sotto la data del 24 ottobre 1943 – che “tutta la comunità è riunita in consulta per decidere su affari delicati”. Si trattava di stabilire la sorte di questi “ospiti”. I padri decidono di licenziarli, ma la storia va diversamente.
Racconta padre Ezio: “La decisione fu presa dall’ingegner Pietro Lestini, che era anche assistente dell’AC. Disse: chi vuole stare con noi deve seguirci in una dépandance in campagna. Tutti hanno accettato”, ma la dépadance non è altro che il sottotetto della chiesa, individuato come rifugio sicuro. È qui che questi giovanotti – il più anziano aveva 35 anni – acconsentono a farsi murare, “scomparendo” dalla scena. E quando viene posato l’ultimo mattone, che li avrebbe separati dal mondo per un tempo indefinito, il più giovane, appena un ragazzino, sviene. Solo a cose fatte vengono informati tre sacerdoti della comunità, che poi si coinvolgono nell’assistenza a quanti sono nascosti. Tra loro il superiore, padre Antonio Dressino. Protagonista indiscussa è suor Margherita Bérnes, delle figlie della Carità, la cui casa sorgeva di fronte alla chiesa: è lei che ogni giorno cucina per gli “abitanti” della soffitta (una trentina in tutto tra chi andava e veniva). Tra loro, almeno tre ebrei: i fratelli Finzi e Leopoldo Moscati. Per aver contribuito alla loro salvezza padre Dressino, suor Margherita, Lestini e la figlia Giuliana (che faceva da “postina” tra i rifugiati e le famiglie) sono stati insigniti dell’onorificenza di “Giusto tra le Nazioni”.
Passano così sette mesi, fino al 7 giugno 1944. L’unica via di comunicazione con l’esterno è la finestra del rosone, da cui passano il cibo e anche le persone, attraverso un sistema a carrucola rudimentale ma ben congegnato. Qualcuno che si sente male viene fatto uscire all’aria, qualcuno esce per impegni particolari: per recuperare documenti, per la nascita dell’erede o per andare a trovare il padre in ospedale. E “la notte di Natale del ’43 – racconta padre Ezio – è salito in questa soffitta anche un sacerdote, che i rifugiati ricorderanno per tutta vita. Qui sono state celebrate di tre messe. Una nottata indimenticabile”. In soffitta si vive, appunto, di notte, quando la chiesa è chiusa, per evitare che si sentano voci e rumori. L’unico problema (soprattutto per il passaggio del cibo dalla finestra) è quando la luna illumina troppo la facciata della chiesa… e bisogna aspettare per poter salire o scendere senza essere visti. La vita si svolge su una passerella di assi di legno, larga neanche due metri, che corre tutto intorno alla soffitta. Ma il centro è inagibile, in quanto la copertura della volta a botte non può reggere il peso delle persone.
I rifugiati nella soffitta non si perdono d’animo e si danno da fare da subito, non solo per sopravvivere, ma per passare al meglio il tempo. Si comincia da subito: il 4 novembre è indetto il campionato di tresette, dal 5 novembre comincia il servizio postale. Arriva qualche giornale e anche il gioco “Crox”, una specie di parole crociate da tavolo. La compagine è molto variegata come età, provenienza geografica e appartenenza politica. I volti di alcuni sono rimasti immortalati nei disegni di uno di loro, Luigi De Simone. Il sottotenente Franco Papini è raffigurato mentre racconta la sua storia, a lume di candela. Sarà lui a tenere anche un diario di quei giorni, in cui si trovano informazioni preziose. Il Colonnello, in realtà sottotenente di fanteria Clemente Gonfalone, è il più pauroso. È lui che recita il rosario e le preghiere. Promette anche di farsi prete e in effetti sarà così. Carlo Prosperi, soprannominato “Ercolino” o “Porchetta”, è protagonista di una scenetta memorabile, recitata nel giorno di Natale, nei panni di una infermiera. Ma “la cosa più importante – racconta padre Ezio – fu quella comunione che si era instaurata tra di loro. Qui dentro è nata una comunione di affetti e di azione”.
La parrocchia di San Gioacchino in Prati è stata riconosciuta come “Casa di vita” dalla Fondazione Internazionale Raoul Wallenberg (http://www.raoulwallenberg.net). La cerimonia di consegna e l’istallazione della targa è prevista a breve.
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