Migranti, la “mappa” (e le storie) di accoglienza dei monasteri italiani

Migranti, la “mappa” (e le storie) di accoglienza dei monasteri italiani

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Sono in tanti ad aver risposto all’appello del Papa. Oltre 80 le strutture monitorate dal progetto “Altro da Dire”, ma i dati sono ancora parziali

Hanno aperto le loro porte ai migranti, hanno avviato percorsi di accoglienza, formazione e inserimento sociolavorativo, ma molto spesso lavorano in silenzio, lontano dai riflettori. Sono le tante comunità religiose presenti in tutta Italia che a tre anni dal primo invito di Papa Francesco ad aprire i “monasteri” ai migranti, hanno avviato piccoli progetti di accoglienza senza clamore. Un impegno non semplice da monitorare a livello nazionale, ma Laura Galimberti, ideatrice e coordinatrice del progetto Altro da Dire, ci ha provato. Ed è così che in seno alla Conferenza italiana superiori maggiori (Cism) e all’Unione superiore maggiori d‘Italia (Usmi) è partita una sorta di sperimentazione che ha provato a raccogliere le tante storie di buona accoglienza che nel piccolo fanno la differenza.

Sono poco più di 80 le esperienze registrate e inserite all’interno di una mappa dallo scorso anno fino a giugno 2016. Puntini sullo stivale senza una diffusione geografica ben definita, ma diffusa. Molte le congregazioni che hanno risposto fornendo dati aggiornati, altrettante quelle che sono rimaste in silenzio. Raccogliere notizie di progetti di accoglienza dalle diverse famiglie religiose presenti in Italia, d’altronde, non è così semplice e non è detto che chi non ha ancora risposto non abbia una storia da raccontare. Per questo, spiega Galimberti, la mappa è soprattutto una «provocazione al mondo religioso per dir loro che devono comunicare e raccontare quello che fanno, non solo sulle tematiche dell’immigrazione».

A oggi, spiega Galimberti, avere dati esaurienti sul tema è quasi impossibile. «I dati che abbiamo raccolto – aggiunge – provengono dalla segnalazione dei superiori provinciali per le congregazioni maschili, mentre per le congregazioni femminili, che sono molte di più, non riusciamo ancora ad averli. Abbiamo avuto delle segnalazioni, ma estemporanee». Nonostante le difficoltà nel tracciare un quadro il più possibile attinente alla realtà, la squadra delle famiglie religiose che a oggi hanno fatto sapere di essere in prima linea sull’accoglienza c’è e ha tanti volti.

L’elenco è lungo e a vederlo sembra proprio che all’appello di Francesco abbiano risposto in tanti. Ci sono i Guanelliani, i Francescani, i Comboniani, i Pavoniani, gli Scalabriniani, le suore Mercedarie, le Figlie di Santa Maria della Provvidenza, le Orsoline, le suore della Provvidenza. Poi ancora i Salesiani, le suore di San Giuseppe di Chambery, i Cappuccini, i Rosminiani, le Battistine, i Saveriani, i Trinitari, i Dehoniani, il Pime e l’Uisg, le Piccole Ancelle del Sacro Cuore, i Benedettini Silvestrini, gli Orionini, i Frati minori, gli Oblati di San Giuseppe, i Missionari della Consolata, le Missionarie dell’Immacolata, i padri Somaschi, le suore di Maria Consolatrice, i Paolini, i Missionari Servitori della Parola, le Carmelitane scalze, le Figlie della Carità, le suore Terziarie e le suore di Maria Bambina, ma l’elenco, come già detto, è incompleto.

L’accoglienza è varia, spiega Galimberti. «Abbiamo inserito segnalazioni di diversa tipologia, dalla prima accoglienza alla seconda – racconta -, strutture in comodato o accoglienza direttamente in casa di una comunità religiosa, ma ci sono anche progetti di orientamento al lavoro». La risposta dei religiosi, quindi, c’è stata e lo raccontano le storie raccolte fino ad oggi. «A seconda delle possibilità e delle situazioni le comunità hanno risposto – assicura la coordinatrice del progetto -. Si va dalle suore che vanno al porto in attesa di abbracciare e accogliere i migranti, fino a Como dove vengono accolti in casa, fanno corsi di italiano e corsi di formazione professionale per garantire un inserimento sociale». Tante le storie, quante le porte aperte in questi anni dal Friuli alla Sicilia. Come l’esperienza delle suore Scalabriniane di Siracusa, ai semafori per incontrare i migranti. «Anche se non hai nulla – racconta Galimberti – una parola di conforto la puoi sempre dare. Queste suore andavano con questa precisa mission: andare ai semafori perché sono punti nodali e confortare le persone. Poi i migranti si aprivano, raccontavano la loro storia».

«Ci sono delle comunità che vivono in estrema povertà e sono quelle che riescono maggiormente ad accogliere – continua Galimberti -. In Sicilia ci sono dei Cappuccini, che guidano una comunità che accoglie persone con tanti problemi dal punto di vista sociale e relazionale, che hanno trovato posto anche per questi migranti». Un’accoglienza silenziosa anche nelle grandi città. È il caso di “Casa Scalabrini” a Roma, grazie all’impegno del Centro Astalli e della Caritas. «Casa Scalabrini genera cultura nel quartiere con laboratori radio, corsi di sartoria, incontri, cineforum. C’è gente del quartiere che va a fare i corsi nella struttura. Tutto questo prima non c’era». Accoglienza diffusa anche al Nord, dove le porte aperte sono tante. «Una esperienza molto interessante è quella di Cascina don Guanella, in provincia di Lecco – racconta Galimberti -. Lì dove c’era un luogo trascurato e un terreno dismesso, oggi c’è un posto nuovo sia dal punto di vista dell’ambiente che delle persone. C’erano ragazzi con disagio e alcuni migranti. Attraverso la risistemazione del terreno della cascina hanno rigenerato se stessi».

Tante piccole esperienze che per Galimberti andrebbero raccontate e ascoltate. «Non so quanti religiosi stiano dando risposte profetiche a livello macro – spiega -, ma nel micro certamente esistono. Se qualcuno si chinasse ad ascoltarle ne carpirebbe delle idee buone che si potrebbero riproporre in altri contesti. Ognuno risponde come può, ma forse a livello macro l’intuizione potrebbe essere riproposta». Intanto, l’intenzione di portare avanti il monitoraggio dell’accoglienza dei religiosi in Italia non manca. «Questo progetto è nato per tentare di raccontare le risposte messe in campo a fronte di tante povertà – conclude Galimberti -. Raccontare per tirar fuori il meglio, aiutarsi tra congregazioni», ma anche per farle conoscere a tutti, attraverso una comunicazione in rete con i media, per fare in modo che le storie possano essere diffuse e prese come modello da replicare. «Ci sono buone prospettive – spiega Galimberti -, ma si deve investire in questo settore perché la comunicazione è al servizio di tutti gli altri ambiti della pastorale».

FONTE – REDATTORE SOCIALE

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